venerdì 8 agosto 2014

ABBAZIA DI CERRATE- Valeria Girau



ABBAZIA DI CERRATE



L'Abbazia di Santa Maria di Cerrate è un sito romanico medievale che si trova sulla strada provinciale che collega Squinzano a Casalabate, vicino Lecce.


 La leggenda narra che il re normanno Tancredi d'Altavilla, vissuto a cavallo tra i secoli XI e XII, mentre era impegnato in una battuta di caccia, dopo aver inseguito a lungo una splendida cerva, sul punto di ucciderla ebbe l’impressione di vedere apparire, fra le corna della sventurata fiera, la Madonna.
Si dice che da qui sia nato il nome Cerrate o Cervate, anche se secondo altre ricostruzioni, potrebbe derivare da cerri, dalla precedente estensione boscosa di querce e frassini.

Fondata quindi per volontà del re, la gestione dell’Abbazia fu dapprima affidata ai monaci basiliani, per passare in seguito ai benedettini. Nel 1531 il Complesso passò sotto il controllo dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli.

Nel tempo divenne un centro nevralgico per il territorio salentino annettendo fondi e giardini, uno scriptorium, un refettorio, le abitazioni dei monaci, una biblioteca, i forni, due trappeti (frantoi ipogei), le stalle, un pozzo, ed un mulino. Divenne importante per il territorio sia da un punto di vista economico, sia religioso e culturale.

In seguito questo luogo è stato abbandonato subendo un grave tracollo, anche per via dall’incursione dei pirati turchi, nel 1711. 


Adibito per un certo periodo a masseria, il complesso è stato poi acquistato dall'Amministrazione della Provincia di Terra d'Otranto e restaurato, trasformano una delle aree in Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari del Salento. 
 Nel museo si trovano oggetti ed arredi tipici della tradizione contadina, le stanze da letto, la cucina con pentole e attrezzi, gli utensili da lavoro, gli oggetti della vita quotidiana: scolapiatti di legno, tappeti realizzati riutilizzando vecchi stracci intrecciati, vasi e brocche e piatti di terracotta smaltata, centrotavola ricamati, lenzuola e coperte tessute al telaio, statue dei santi in cartapesta e argilla dipinta con le loro bellissime cupolette in vetro. Alcuni di questi manufatti sono ancora in uso nelle abitazioni del sud Italia, e si trovano facilmente nei mercati e nei negozi.
La chiesa è composta da un portale sormontato da un’arcata con altorilievi che riproducono scene del Nuovo Testamento ed un monaco in preghiera.

Sul fianco della navata sinistra un lungo porticato con tettoia e colonne con archi, con ogni singolo capitello decorato con diverse figure in pietra.

La visita include i due frantoi ipogei, in cui si trovano le enormi macine per le olive e le vasche per contenere l’olio.

Sono luoghi affascinanti, scavati nelle rocce, con l’odore di umido del sottosuolo e le pietre stesse trasformate in meccanismi votati al lavoro, ruote mastodontiche per schiacciare, cisterne scavate nel pavimento.

L’Abbazia di Cerrate è il primo bene FAI in Puglia.





PIANTA GENERALE



1. CHIESA DI SANTA MARIA DI CERRATE
2. PORTICO DUECENTESCO
3. CASA MONASTICA
4. MUSEO DELLE ARTI E DELLE TRADIZIONI POPOLARI
5. EDIFICIO DELLE EX - STALLE
6. FRANTOI IPOGEI
7. AIA

8. AGRUMETO
9. POZZO CINQUECENTESCO





APPENDICE LETTERARIA


DA UN LAI DEL GUIGEMAR E IL MITO CELTICO DELLA CACCIA AL CERVO_  Maria di Francia


En l'espeise d'un grant buissun
Vit une bise od un foün;
Tute fu blaunche cele beste,
Perches de cerf out en la teste;




Nel folto di una grossa macchia

ha visto una cerva col suo cerbiatto;

la bestia era tutta candida

e corna di cervo portava sulla testa. 



NA CANDIDA CERVA SOPRA L’ERBA_ Petrarca


Una candida cerva sopra l’erba
verde m’apparve, con duo corna d’oro,
fra due riviere, all’ombra d’un alloro,
levando ’l sole a la stagione acerba.

Era sua vista sí dolce superba,
ch’i’ lasciai per seguirla ogni lavoro:
come l’avaro che ’n cercar tesoro
con diletto l’affanno disacerba.

Nessun mi tocchi - al bel collo d’intorno
scritto avea di diamanti et di topazi - :
libera farmi al mio Cesare parve .

Et era ’l sol già vòlto al mezzo giorno,
gli occhi miei stanchi di mirar, non sazi,
quand’io caddi ne l’acqua, et ella sparve.


LA CERVA_ canzone popolare salentina

‘Nu giurnu sci a caccia alla foresta                            Un giorno sono andato a caccia in una foresta

intra lu boscu de Ninella mia                                    nel bosco della mia Ninella

ncontrai na cerva e li troncai la testa                         incontrai una cerva  e le troncai la testa

morta nu’ bera e lu sangu scinnia.                             Non era morta e il sangue scorreva.

se nfaccia la patruna de la finestra:                           Si affaccia alla finestra la padrona:

non ammazzar la cerva  ca è la mia !                        non ammazzare la cerva che è mia !

nu su vanuto pe mmazzar la cerva,                          Non sono venuto ad ammazzare la cerva

ieu su vanuto pe amare a tie.                                    Sono venuto per amare te.



LA CERVA BIANCA_  J. L. BORGES


Da quale agreste ballata della verde Inghilterra,
da quale stampa persiana, da quale regiona arcana
delle notti e dei giorni che il nostro ieri racchiude,
è venuta la cerva bianca che ho sognato questa mattina?
Sarà durata un secondo. L'ho vista attraversare il prato
e perdersi nell'oro di una sera illusoria,
lieve creatura fatta di un po' di memoria
e di un po' di oblio, cerva di un solo fianco.
I numi che reggono questo strano mondo
mi hanno permesso di sognarti ma non di essere il tuo padrone;
forse ad una svolta dell'avvenire profondo
ti incontrerò di nuovo, cerva bianca di un sogno.
Anch'io sono un sogno fuggitivo che dura
qualche giorno di più del sogno del prato e del biancore.

IL CERVO ALLA FONTE E IL LEONE_ Esopo


Spinto dalla sete, un cervo se ne andò ad una fonte; bevve, e poi rimase ad osservare la sua immagine riflessa nell’acqua. Delle corna, di cui ammirava la grandezza e il ricco disegno, si sentiva tutto orgoglioso, ma delle gambe non era soddisfatto, perché gli parevano scarne e fragili. Mentre ancora stava riflettendo, ecco un leone che si mette ad inseguirlo. Il cervo si dà alla fuga e riesce per un bel pezzo a tenerlo a distanza, perché la forza dei cervi risiede nelle gambe, come quella dei leoni nel cuore. Finché il piano gli si stese dinanzi spoglio di alberi egli trovò dunque scampo ma quando giunse in una plaga boscosa, accadde che gli si impigliarono le corna nei rami, non poté più correre e fu preso. Allora, mentre stava per morire, disse a se stesso: “Me disgraziato! quelle gambe che dovevano tradirmi mi offrivano la salvezza, e mi tocca invece morire proprio per colpa di quello in cui riponevo tutta la mia fiducia!”.
Così molte volte, tra i pericoli, la salvezza ci viene da amici che parevano sospetti, mentre altri in cui avevamo piena fiducia ci tradiscono.




LA CERVA ORBA_ Esopo


Una cerva orba d’un occhio usava pascolare vicino al mare, e per proteggersi da eventuali attacchi, si metteva con l’occhio buono verso terra, in caso i cacciatori le si avvicinassero, e il lato orbo rivolto al mare, perché da quella direzione non si spettava alcuna minaccia. Tuttavia alcuni marinai vennero con una barca a remi e appena la scorsero presero la mira dall’acqua e le spararono, uccidendola.

Nell’esalare l’ultimo respiro disse « Misera creatura che sono mai! Ero al sicuro dal lato di terra da cui mi aspettavo di poter essere aggredita e ho trovato i miei nemici nel mare da cui mi sentivo maggiormente protetta. »

Morale:

Il pericolo viene spesso da dove meno lo si aspetta.



IL CERVO MALATO_ Esopo


Un cervo le cui giunture erano divenute rigide per l’età, cadde ammalato e decise di riposare nell’erba lussureggiante di un prato vicino a un bosco, così da poter mangiare un po’ più a suo agio.

Siccome era sempre stato amichevole e un buon vicino, molti animali vennero a fargli visita e ad augurargli pronta guarigione. Così, nonostante il cervo ricuperasse la salute, non aveva niente da mangiare e finì col morire, non tanto per la malattia o la vecchiaia, quanto per la mancanza del cibo che i suoi amici gli avevano mangiato.

 

 

 

INCONTRO TRA IULO E SIMONETTA_ Poliziano
41
Ahi qual divenne! ah come al giovinetto
corse il gran foco in tutte le midolle!
che tremito gli scosse il cor nel petto!
d'un ghiacciato sudor tutto era molle;
e fatto ghiotto del suo dolce aspetto,
giammai li occhi da li occhi levar puolle;
ma tutto preso dal vago splendore,
non s'accorge el meschin che quivi è Amore.

42
Non s'accorge ch'Amor lì drento è armato
per sol turbar la suo lunga quiete;
non s'accorge a che nodo è già legato,
non conosce suo piaghe ancor segrete;
                                                                                                                                           

di piacer, di disir tutto è invescato,
e così il cacciator preso è alla rete.
Le braccia fra sé loda e 'l viso e 'l crino,
e 'n lei discerne un non so che divino.

43
Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di
rose e fior dipinta e d'erba;
lo inanellato crin dall'aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell'atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

44
Folgoron gli occhi d'un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l'aier d'intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

45
Con lei sen va Onestate umile e piana
che d'ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.

  46
Sembra Talia se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l'asta;
se l'arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s'arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l'è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

47
Ell'era assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta
di quanti fior creassi mai natura,
de' quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

48
Già s'inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l'erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null'altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d'arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:

49
"O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m'assembri certo;
se dea, forse se' tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal cel grazia, qual sì amica stella,
ch'io degno sia veder cosa sì bella".

50
Volta la ninfa al suon delle parole,
lampeggiò d'un sì dolce e vago riso,
che i monti avre' fatto ir, restare il sole:
ché ben parve s'aprissi un paradiso.
Poi formò voce fra perle e viole,
tal ch'un marmo per mezzo avre' diviso;
soave, saggia e di dolceza piena,
da innamorar non ch'altri una Sirena:



Iulo e Simonetta


51
"Io non son qual tua mente invano auguria,
non d'altar degna, non di pura vittima;
ma là sovra Arno innella vostra Etruria
sto soggiogata alla teda legittima;
mia natal patria è nella aspra Liguria,
sovra una costa alla riva marittima,
ove fuor de' gran massi indarno gemere
si sente il fer Nettunno e irato fremere.

52
Sovente in questo loco mi diporto,
qui vegno a soggiornar tutta soletta;
questo è de' mia pensieri un dolce porto,
qui l'erba e' fior, qui il fresco aier m'alletta;
quinci il tornare a mia magione è accorto,
qui lieta mi dimoro Simonetta,
all'ombre, a qualche chiara e fresca linfa,
e spesso in compagnia d'alcuna ninfa.

53
Io soglio pur nelli ociosi tempi,
quando nostra fatica s'interrompe,
venire a' sacri altar ne' vostri tempî
fra l'altre donne con l'usate pompe;
ma perch'io in tutto el gran desir t'adempi
e 'l dubio tolga che tuo mente rompe,
meraviglia di mie bellezze tenere
non prender già, ch'io nacqui in grembo a Venere.

54
Or poi che 'l sol sue rote in basso cala,
e da questi arbor cade maggior l'ombra,
già cede al grillo la stanca cicala,
già 'l rozo zappator del campo sgombra,
e già dell'alte ville il fumo essala,
la villanella all'uom suo el desco ingombra;
omai riprenderò mia via più accorta,
e tu lieto ritorna alla tua scorta".

55
Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che 'l ciel tutto asserenò d'intorno,
mosse sovra l'erbetta e passi lenti
con atto d'amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l'erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.





LA CERVA, LA GROTTA E LA MADONNA_ Leggenda popolare calabrese


Un giorno alcuni cacciatori, provenienti dalla città di Rossano si trovavano sul monte Sellaro ad  inseguire una cerva, ma l’animale era così veloce che essi faticavano a catturarlo. Finalmente riuscirono a circondarlo e si apprestarono  ad ucciderlo, ma invano, poiché la povera bestiola scomparve all’interno di una grotta situata lì vicino. I cacciatori erano convinti che ormai la cerva fosse in trappola, quindi si avvicinarono cautamente all’ingresso della grotta, ma una volta entrati rimasero sbalorditi, quando invece della cerva videro una Madonna in preghiera. I cacciatori, estasiati da quella visione, s’inginocchiarono tutt’insieme ed incominciarono anch’essi a pregare. Dopo un po’ la Madonna scomparve e al suo posto rimasero delle tavolette di legno ove erano dipinti da un lato la Madonna e dall’altro San Giovanni. Subito i cacciatori, prese le tavolette raggiunsero Rossano e le consegnarono al vescovo che prontamente le conservò nella chiesa madre. L’indomani, stranamente le tavolette non c’erano più e soltanto dopo innumerevoli ricerche vennero ritrovate nello stesso posto dove erano state scoperte inizialmente. Riportate nuovamente al vescovo di Rossano le misteriose icone per ben tre volte sparirono e per altrettante tre volte vennero ritrovate nel luogo originario, così  il vescovo capi che esse dovevano rimanere presso la grotta, sul monte Sellaro ed ordinò che qui fosse edificata una cappella. Iniziata la costruzione, un giorno il capomastro chiese ad un suo manovale di passargli una pietra da sistemare in un punto dell’edificio. Il giovane gliene passò una, ma il capomastro la gettò via poiché non gli sembrava adatta e ordinò al giovane di passargliene un’altra, ma il maldestro manovale, senza accorgersene, riprese quella di prima e il capomastro, indignato, la rigettò ancora una volta, poi, nel tentativo di disfarsene, la colpì con un grosso martello. La pietra si spaccò in due e all’interno, sulle rispettive facciate, vi erano raffigurati San Giovanni e la Madonna. Ancora oggi, tutt’attorno a quel sacro antro, si trova uno  meraviglioso santuario, a Cerchiara di Calabria, dedicato appunto alla Madonna delle Armi, cioè  alla Madonna “della grotta”.

Valeria Girau- valeriagirau.blogspot.it

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